giovedì 25 febbraio 2010

Interviste: Gianni Donnigio Donvito, regista

L’uomo che vestiva il suono d’immagini

Il nuovo videoclip dei Cadabra, il brano “Other Side” (tratto dall’ultimo album “Wave/Action”), ci ha fatto conoscere un personaggio molto interessante, un artista delle immagini, il regista Gianni Donnigio Donvito della Ateneriena Productions. Sperimentatore, ha utilizzato una tecnica innovativa nella quale i tre Cadabra sono rappresentati da altrettanti “pupazzetti”, mossi con maestria all’interno di un video di una qualità che non si vedeva da tempo nel mondo indipendente (e non solo indipendente, purtroppo). Abbiamo colto al volo l’occasione per intervistarlo e parlare delle sue tecniche, ma anche del mondo dei videoclip in generale.

Parlaci del video “Other Side” dei Cadabra, come è nata l’idea di sostituire i membri del gruppo con dei “pupazzetti” a loro immagine e somiglianza?
I Cadabra sono facili da modellare. Prendi ad esempio Sebiano: qualcuno sostiene che l’originale sia quello in pongo e stoffa e quello che si agita sul palco sia una copia del mio. Francesco e Vincenzo poi hanno lo stesso taglio di capelli da anni… più facile di così!
Cercavo da tempo l’occasione di realizzare un videoclip sporco e cattivo, in bianco e nero, e soprattutto qualcuno che mi desse carta bianca su tutto per potermi divertire senza alcun limite. Ho deciso che l’avrei fatto con “Other Side” dopo il primo ascolto. Ma ti assicuro che è tutto il contrario dell’idea iniziale, di cui ho conservato solo il ragno che Vincenzo porta a spasso al mattino e la piccola “Other G”, la mia versione dark di una groupie. Sarà per la prossima volta!

Parlaci della tecnica che hai usato e in quanto tempo sei riuscito a realizzate il tutto?
La stop motion (o passo uno) mi appassiona da sempre. L’idea di poter realizzare tutto in una stanza, senza i limiti e i compromessi di una troupe, è la mia dimensione. Inoltre mi piace giocare, è una cosa che non ho mai smesso di fare. Costruire i pupazzi e i loro ambienti, illuminarli e animarli è appagante. Per questo video ho impiegato il tempo record di tre settimane in “full immersion” più una settimana per il montaggio. Ma se avessi potuto, ci avrei lavorato anche qualche mese, aumentando il numero dei fotogrammi al secondo, lavorando maggiormente sulla fotografia, sviluppando un intreccio narrativo più delineato e tanto altro.

Quali attrezzature utilizzi per le riprese e il montaggio?
Gli attrezzi sono più o meno gli stessi che utilizzo per i video “normali”, ma in dimensioni ridotte e con l’ausilio di continui sotterfugi artigianali. Realizzo un piccolo set casalingo, dispongo le luci, piazzo una delle mie due videocamere mini dv ben salda sul suo cavalletto, metto in posizione i pupazzetti in pongo e passo le ore e fotografarne i movimenti e a cambiare le scenografie. Per montare il tutto, il fedele Final Cut.

Qual è il tuo concetto di “effetto” applicato alle immagini?
Il miglior effetto per me è quello creato artigianalmente. Mi piace filtrare e trasformare la realtà prima che arrivi sulla timeline del software di montaggio, creando effetti visivi per tentativi ed esperimenti “sul campo”. Insomma, preferisco giocare in produzione e non in post produzione. Ma non ne faccio una regola, perché è l’obiettivo finale quello che conta. E se in futuro ciò che avrò in mente non mi sarà possibile ottenerlo con mezzi esterni, ricorrerò sicuramente a successive manipolazioni.

La musica e il cinema, due arti che si fondono nel videoclip musicale. Che qualità deve avere un regista, secondo te, per saper creare un mini-film con in mano solo una colonna sonora di tre minuti?
Mi viene subito da risponderti “il dono della sintesi”. Sin da piccolo sono stato un gran fruitore di videoclip, facendo una distinzione tra quelli che raccontano una storia, a prescindere dalla canzone, e quelli che invece accostano immagini al ritmo della musica, gran parte delle volte con i musicisti in primo piano che suonano o fanno finta. Io prediligo i primi, quelli che non hanno niente da invidiare ad un cortometraggio. I secondi, la maggioranza, sono lavori di montaggio, che se ben realizzati, possono rivelarsi un valore aggiunto alla musica e niente di più. Che qualità quindi deve avere un regista di videoclip? Nel primo caso deve avere delle idee e trovare il miglior modo per realizzarle, dargli un senso compiuto in 3-4 minuti. Poi un po’ di competenza e conoscenza del linguaggio cinematografico e delle sue regole, che non guasta mai… e la curiosità del fruitore accanito.

Ho ammirato molto i lavori del regista Tim Pope, negli anni’80 ha avuto idee veramente innovative (Soft Cell, David Bowie, The Cure), puoi farci qualche nome di registi dei nostri anni che possiamo definire “maestri nel genere”?
Il primo che mi viene in mente è Michel Gondry, il mio preferito. Molti dei video più belli e originali degli ultimi quindici anni sono i suoi. Anton Corbijn è un altro bel nome, anche se i due hanno uno stile molto differente. In particolare ultimamente apprezzo i lavori Floria Sigismondi che fa spesso uso della stop motion. In Italia penso a Virgilio Villoresi, Erica Il Cane, i Manetti Bross…

A mio giudizio, i videoclip degli anni ’80 sono stati il “top” per la qualità sia delle produzioni sia delle idee… mi vengono in mente gruppi come The Cure, Depeche Mode, Duran Duran, Ultravox e New Order, hanno avuto dei video straordinari, ma di esempi se ne potrebbero fare a decine. Poi molto si è perso nel decennio successivo e ancora oggi non si trovano videoclip veramente creativi, basta sintonizzarsi un pomeriggio su MTV. Cosa è successo secondo te? Perché oggi, nonostante l’abbondanza di mezzi come telecamere digitali e computers, non si riesce più a trovare la qualità dei video degli anni ’80?
Gli ‘80 sono stati anni di grandi sperimentazioni, anni in cui tutto era nuovo e possibile. Si investiva molto sul videoclip e questo ha permesso la realizzazione di capolavori senza tempo. Se oggi è difficile trovare un buon video, gran parte della colpa è da ricercarsi forse nella crisi del disco e nel ruolo che il videoclip ha sempre avuto quale suo mezzo di promozione. Crisi del disco significa nessun investimento sul video. Dobbiamo quindi dimenticare quei tempi, archiviarli.

Finiti gli anni ’80, c’è stato un calo d’interesse per i videoclip dicevamo, in Italia le reti televisive hanno smesso di trasmetterli, alcuni programmi storici, come “DJ Television” di Canale 5, hanno chiuso i battenti. Oggi, con l’avvento di YouTube, i gruppi hanno ritrovato l’interesse a realizzare i propri videoclip, anche in modo artigianale, genuino e forse più artistico: internet può essere il mezzo giusto per rilanciare quest’arte un po’ trascurata?
È vero, la buona musica e i buoni videoclip ci sono ancora, ma non su MTV, bensì nel web, il luogo dove ormai i giovani cercano stimoli. I programmi televisivi sono sempre più nelle mani di pochi, che arraffano gli ultimi guadagni prima del tracollo. Passo interi pomeriggi a navigare in YouTube, dove ascolto ancora buona musica e scopro dei bei videoclip. Probabilmente siamo lontani dai “capolavori del passato”, ma si sperimenta e c’è ancora del fermento in giro, per fortuna. YouTube, come per tutto ciò che è innovazione, ha i suoi pro e i suoi contro. Limitandoci ad elencarne i pregi, il web permette a tutti di diventare protagonisti, di capovolgere le regole del gioco e in molti casi di realizzare cose che fino a qualche anno fa erano circoscritte solo a poche realtà produttive. Credo anche che il livello artistico/creativo dei video in alcuni casi sia cresciuto, proprio in funzione del fatto che spesso vengono concepiti come opere a se stanti, prive della funzione meramente promozionale. Per cui sì, il web ha conferito nuova vitalità al videoclip in quanto opera d’arte ed è l’unico mezzo che lo possa rilanciare. Il vero vantaggio oggi è che non c’è più nessuno che si arroga il diritto di giudicare se l’artista sia o meno meritevole di esistere. Oggi l’artista si promuove da solo o con l’ausilio di piccole realtà di produzione, fa del suo meglio e qualche volta riesce anche ad emergere, senza l’approvazione di ingranaggi del marketing. Non è un gran periodo per la musica (come per tutti gli altri settori), ma non credo affatto che qualche anno fa le cose andassero tanto meglio.

Spesso delle società di produzione video offrono ai gruppi emergenti i loro servizi “professionali”, poi assistiamo a videoclip scadenti, pieni di effetti da filmino matrimoniale a confondere la scarsa qualità delle attrezzature utilizzate. Che cosa consiglieresti a un gruppo indipendente che volesse realizzare il suo primo videoclip? A chi bisogna rivolgersi e quale budget occorrerebbe, secondo te, per un lavoro di una qualità che possa meritare anche un passaggio televisivo importante (leggi MTV)?
Un tempo non troppo lontano, il disco aveva un suo mercato e il videoclip era uno dei mezzi promozionali più efficienti. Per cui, si investiva sul clip e il tutto aveva un senso, anche perché l’investimento lo faceva quasi esclusivamente la casa discografica.
Le cose in poco tempo sono cambiate. I dischi non si vendono più, a parte qualche grosso nome internazionale, e il videoclip ha cambiato ragione sociale. Il musicista oggi, per vivere della sua musica, deve suonare il più possibile dal vivo. I video migliori oggi viaggiano sul web grazie anche ai bassi budget e alla totale autonomia d’azione, che li rende estremamente creativi. Le varie emittenti televisive continuano a fare gli interessi delle poche “grandi”, propinandoci le solite musichette. In un periodo come questo, di transizione e di crisi del settore, credo che la cosa importante (dato che parliamo di musica) sia ancora e sempre investire nella realizzazione di buoni dischi di qualità, ben registrati, che suonino in alta fedeltà e non siano destinati solo ad uscir fuori nei formati compressi, da ascoltare negli i-pod e alle casse del PC. Che sia di “qualità” o meno, il video entra nei grossi circuiti solo se supportato da “poteri alti”. Ci sono moltissimi bei videoclip in circolazione, realizzati con poco denaro e molte idee, puntiamo su quelli e stiamo a vedere che direzione prenderà la musica nei prossimi anni.

Il videoclip, come giustamente dicevi, è stato da sempre considerato come “un mezzo promozionale” e mi pare sia una visione veramente riduttiva del ruolo del video nella musica, concordi con me? Perché si stenta ancora a considerare i videoclip musicali come delle vere e proprie “opere d’arte”?
Il videoclip nasce con l’obiettivo di promuovere una canzone, ma non è solo questo e sono d’accordo con te, è sempre stata un’etichetta riduttiva. E forse oggi, grazie alla crisi del disco, sta perdendo sempre più quella sua funzione promozionale, acquistando una più definita autonomia artistica. E ripeto, nel web c’è davvero molto fermento. Il fatto che raramente il videoclip porti la firma di chi lo ha realizzato è un chiaro segno della funzione che gli è stata delegata negli anni. Il clip è quasi sempre accompagnato solo dal titolo della canzone e dal nome del gruppo o del singolo autore. Sono rari gli esempi di programmi musicali che ne citano i registi. Il web anche in questo caso è stato prezioso. Oggi spessissimo le note riportano il nome dell’autore del video e a volte addirittura l’intera troupe, il che consente a gente curiosa come me di fare delle ricerche e delle scoperte edificanti. Ma viviamo in un mondo in cui le regole di mercato tagliano i titoli di coda ai film in tv, dopo averli massacrati con gli spot… di che cosa ci meravigliamo?


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sabato 6 febbraio 2010

Interviste: Aus Decline

Il tesoro nascosto della new wave italiana

La new wave esplose nel nostro paese nei primi anni ’80, sulla scia della nuova onda musicale britannica guidata da gruppi come Joy Division, The Cure, Siouxsie And The Banshees e Bauhaus. Tra i numerosi gruppi che nacquero in quel periodo, sono stati i Diaframma, i CCCP e i Litfiba ad avere i mezzi e le capacità per emergere in maniera importante, mentre una miriade di piccole bands, seppur meritevoli di attenzione, si sciolsero nel silenzio. Tra queste gli Aus Decline. Nati sul finire degli anni ‘70 a Pavia, furono notati per la prima volta dal giornalista Alberto Campo, che sulle pagine di Rockerilla scrisse: “Da tenere d'occhio, nascondono segreti preziosi”. Nel 1983 un loro brano, “Five Years Life”, fu inserito nella compilation “First Relation” della Mask Production, ottenendo ottimi giudizi dalla critica. Sul finire del 1984 il gruppo si sciolse, proprio mentre le formazioni fiorentine debuttavano con i loro album, trasformando radicalmente il panorama musicale italiano (Siberia dei Diaframma uscì giusto nel 1984, seguito l’anno successivo da Desaparecido dei Litfiba).
Ma la storia degli Aus Decline non finisce qui: venti anni dopo lo scioglimento, i quattro musicisti della line-up originaria si ritrovano per una curiosa operazione di recupero archeologico delle tracce incise in quegli anni gloriosi, che frutteranno un cd autoprodotto intitolato “Retrospettiva 1981-84” (2003), tredici tracce tra demo e live che mostrano un gruppo solido, immerso cuore e anima nella new wave del periodo, dotato di notevoli potenzialità sia in studio, sia dal vivo. L’album riscuote ottimi consensi, nonostante penalizzato da tutti i limiti dell’autoproduzione, e diventa un piccolo caso della discografia nostrana, soprattutto per il riscontro avuto all’estero. Abbiamo incontrato Luca Collivasone, ex-chitarrista della band, con cui abbiamo parlato degli Aus Decline e dell’ambiente musicale sotterraneo nell’Italia dei primi anni ’80.

Ciao Luca, parlami dei primi anni ’80: com’era la vita di una band dell’epoca? Quali erano le difficoltà di mettere insieme dei musicisti, trovare la sala prove, procacciarsi concerti?
Per la precisione la band nasce prima degli anni ‘80, nel 78/79, e giunge alla formazione definitiva nel 1980. “Sala prove” era una parola che, almeno nella nostra città, non esisteva… molte delle band provavano in casa (!) e noi stessi l’abbiamo fatto per un certo periodo, oppure in qualche sala gentilmente concessa dall’oratorio. Poi, finalmente, si riusciva a trovare una stanza in qualche cascina, ci si portava dentro gli strumenti e finalmente si era liberi di suonare. Riguardo alle difficoltà di trovare i musicisti, riferendomi strettamente all’esperienza degli Aus Decline, direi che non ce ne sono state: quattro teste con gli stessi intenti, e soprattutto con un background culturale simile, si sono trovate insieme ed è stato subito facile andare d’accordo. È stata un’alchimia davvero particolare… si era entusiasti e positivi su ogni idea, sia di tipo musicale che grafico-estetica. Probabilmente il genere stesso che suonavamo non permetteva false intenzioni e rapporti non sinceri: ricordiamoci che, soprattutto nel primo periodo post punk e soprattutto nella nostra piccola città, ci si metteva in gioco non poco perché la maggior parte delle band esistenti suonava il classico repertorio rock, che era quello che il pubblico chiedeva, e salire sul palco in abbigliamento “dark” della prima ora, con atteggiamento piuttosto “marziale”, spesse volte con l’eyeliner sugli occhi… beh, era facile prendersi qualche insulto o peggio. I concerti, onestamente, non li si cercava in maniera ossessiva, spesso eravamo invitati da ragazzi appassionati del genere di altre città, oppure un gruppo che suonava invitava un altro e così via… si faceva squadra e si collaborava. Anche chi organizzava concerti nei locali era comunque un appassionato al genere, per cui mi viene da dire che suonare era più semplice allora che oggi.

Qual era la musica che vi ha ispirato maggiormente e che ha influenzato poi il sound degli Aus Decline?
Sul momento potrei dirti le bands che a me personalmente piacevano di più, come i Joy Division e tutta la scena dark wave, ma anche e soprattutto molti gruppi tedeschi come DAF, Palais Schaumburg e Kraftwerk. Compravamo un sacco di dischi new wave ed era difficile che non ci piacessero.

Il vostro primo demo tape è datato 1982, raccontami come sono andate le cose, la nascita dei pezzi e l’esperienza dello studio di registrazione, magari hai qualche aneddoto da raccontarci a proposito.
Quello che noi definiamo il demo-tape “Radio X” era una cassetta che abbiamo registrato con il classico registratore portatile in mono nella nostra saletta… ma credo che sia prima del 1982, se è a quello che ti riferisci, comunque è Giorgio lo storico del gruppo, io ricordo ben poco in fatto di date. In studio abbiamo invece registrato i pezzi che sono poi finiti su “Retrospettiva”. La cosa che più ci diverte ricordare è che la persona che ci registrava a Milano generalmente lavorava con cantanti di musica leggera da balera e, durante il mixing, alla domanda “descrivetemi che tipo di suono volete”, la risposta fu “malato”. La cosa ci fece molto ridere.

Com’è finito quel demo nelle mani di Alberto Campo di Rockerilla?
Non so… è probabile che fu semplicemente spedito alla redazione di Rockerilla.

Com’è maturata la vostra partecipazione alla compilation “First Relation” della Mask Production e perché proprio “Five Years Life”?
Abbiamo risposto ad una pubblicità pubblicata su Rockerilla che invitava i gruppi ad inviare del materiale. “Five years life” è stata ispirata dal film “L’enigma di Kaspar Auser” di Werner Herzog, è piaciuta immediatamente a quelli dell’etichetta, nonostante avessero a disposizione anche tutti gli altri pezzi.

Gli Aus Decline dal vivo: dalle tracce live del cd emerge una grande professionalità anche sul palco, quale ricordo hai dei vostri concerti e qual era la risposta del pubblico?
I concerti erano molto coinvolgenti, noi avevamo un atteggiamento piuttosto distaccato sul palco, più che altro per timidezza, ma la musica da sola bastava e, dopo due/tre canzoni, davanti a noi si iniziava a saltare. Una cosa che mi ricordo su tutte era il ritmo delle canzoni, dal vivo il basso e la batteria pestavano molto, mi piaceva parecchio sentire il ritmo nello stomaco.

A Firenze, in quei giorni, stava nascendo il “rock italiano cantato in italiano” di Diaframma e Litfiba, quali voci vi arrivavano dalla Toscana e come vivevate a Pavia queste trasformazioni in atto?
Si leggevano le fanzines e le riviste e si veniva a conoscenza dei gruppi di quella città, c’era un grosso movimento di persone che si dava da fare ovunque, anche a Bologna, penso a riviste come Cannibale e Frigidaire. A Pavia niente di tutto questo, ma ci riconoscevamo molto in quel tipo di cultura e quando andavamo in quelle città a vedere i concerti capivamo che Pavia era piccolissima, sotto tutti i punti di vista.

Nel 1984 gli Aus Decline si sciolgono. Perché?
Non avevamo più niente da dire.

Facendo un paragone con le band fiorentine, pensi che se gli Aus Decline avessero cantato in italiano e avessero avuto alle spalle una struttura discografica solida come l’IRA, le cose sarebbero potute andare diversamente? Oggi sareste potuti essere a fianco di Diaframma, CCCP e Litfiba come tra i più titolati rappresentanti della musica alternativa degli anni ’80?
Se un’etichetta come l’IRA decideva di interessarsi ad una band, questa riceveva una notevole visibilità e attenzione da parte delle riviste e del pubblico, indipendentemente dal nome. Purtroppo a noi è andata diversamente rispetto ai gruppi fiorentini.

Venti anni dopo lo scioglimento, nel 2003, decidete di mettere tutto il materiale superstite di quegli anni su un cd e pubblicare quello che, al momento, è l’unico vero album ufficiale degli Aus Decline. Di chi è stata l’idea di assemblare “Retrospettiva 1981-84”?
Riascoltando dopo anni “a freddo” il materiale, Giorgio ed io ci siamo sinceramente stupiti della qualità delle tracce, soprattutto per quanto riguarda il lato compositivo, in tutta onestà non ricordavamo gli Aus Decline in quel modo. È subito nata l’urgenza di pubblicare il materiale, non ci siamo neanche preoccupati di cercare un’etichetta, abbiamo semplicemente voluto mettere su cd le canzoni della nostra band.

Il disco ha fatto gridare al miracolo i nostalgici (come me), che in quelle canzoni hanno respirato intatta tutta l'atmosfera di quel momento particolare della nostra cultura attraverso i suoni oscuri del post-punk. Sfruttando questa occasione, non c’è stata la tentazione di rimettervi insieme? Magari per un nuovo album ed un giro di concerti come ai vecchi tempi?
A me personalmente l’idea di rimettersi assieme, con qualche chilo di troppo, senza capelli, senza ricordare le parti, senza essere in grado di suonare in quel modo, crea imbarazzo… se avessimo continuato senza mai smettere, tipo i Cramps… ok, ci poteva anche stare, ma le poche “reunion” cui ho avuto modo di assistere, sull’onda del revival della new wave italiana, mi hanno messo solo tristezza.

Cosa fanno oggi gli Aus Decline? Chi di voi è rimasto nella musica?
Marco Casasco è un “hammondista” di talento, Riccardo De Angelis ha da poco riabbracciato il basso e al momento si diverte a suonare a casa e a collezionare bassi Rickenbacker. Io ho continuato a comporre sotto lo pseudonimo di Doctor Luke Sharp, il mio ultimo progetto sono i Masked Marvels. Suono anche la tromba nei Maciste ed entro l’anno uscirà un mio disco solista.

Il movimento new wave si è estinto sul finire degli anni ’80, gli stessi Diaframma e Litfiba hanno cambiato stile gettandosi sul cantautorato rock i primi e sul rock dozzinale da arena i secondi. Navigando sul vostro sito ho notato una simpatia per gli Hiroshima Mon Amour, gli unici che avete linkato e per i quali avete speso parole di elogio. Secondo te, quali sono oggi i gruppi meritevoli di menzione per la loro capacità di tramandare nel nuovo millennio il suono new wave che un tempo vi apparteneva?
Ho conosciuto Carlo Furii degli Hiroshima Mon Amour in rete e mi è piaciuto molto quello che fanno, ma anche loro sono in continua evoluzione, non mi sembra che abbiano proprio le sonorità dell’epoca… e fanno bene, secondo me, a non cercarlo in maniera ossessiva. Non conosco altre band che rispondano ai requisiti che chiedi, ma non credo abbia importanza, è bello quando ci sono delle band che recuperano, elaborano e creano cose nuove.

Ultima domanda: torneremo a sentir parlare degli Aus Decline?
Come vedi già se ne parla, adesso ne stiamo parlando, no? C’è una notevole attenzione per la band, soprattutto all’estero: Germania, Europa settentrionale, USA… addirittura a New York la “East Village Radio” ci tiene costantemente in play-list. La cosa ci lusinga e ci permette di dire che, nonostante all’epoca non ricevemmo particolare attenzione dalle etichette e da buona parte dei giornalisti, il materiale proposto era davvero di valore. Molto probabilmente daremo alle stampe quel famoso demo-tape “Radio X” perché, anche se è una registrazione mono, i pezzi sono molto più post-punk, aggressivi, particolari, con interventi di sintetizzatore che anticipano le sonorità di “Retrospettiva”.


“Retrospettiva 1981-84”, tracklist:
1- Fluxion 2- Fear Of Sin 3- Five Years Life 4- Goin' On Jot 5- Earth Isn't Room Enough 6- Body Hit 7- To Lead The Van 8- She Gave Me Algedy (live) 9- Auburn (live) 10- Hanfull Of Beauty (live) 11- Fear Of Sin Live (live) 12- City House (live) 13- She Gave Me Algedy (studio version)

Aus Decline:
Marco Casasco: tastiere e voce
Luca Collivasone: chitarra
Riccardo De Angelis: basso
Giorgio Rimini: batteria

Discografia:
- Retrospettiva 1981-84 (CD, 2003, autoprodotto)
- First Relation (LP compilation, 1983, Mask Production) – brano proposto "Five Years Life"
- Radio X (demotape, 1982, autoprodotto)

Collegamenti:
http://www.ausdecline.com/

Ascolta gratuitamente alcuni brani estratti dall’album “Retrospettiva” sulla pagina MySpace degli Aus decline.

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giovedì 4 febbraio 2010

NEWS – Icydawn in edizione limitata

“A Personal Collection Of Demo(n)s” in confezione speciale solo per 100 fans

Chi ha seguito negli anni la storia di Icydawn, si è sempre trovato tra le mani delle vere e proprie opere di arte grafica per quanto riguarda il packaging dei suoi dischi, basti solo pensare alla confezione di “A Matter Of Deathstyle PT. I”, due lastre metalliche assicurate da tre bulloni a contenere il cd. Quindi a costoro sarà sicuramente parsa una “stranezza” che per il primo album ufficiale “A Personal Collection Of Demo(n)s” si sia optato per una confezione standard. Ma ecco che, da buon feticista qual è, Icydawn annuncia l’uscita dell’edizione speciale dell’album, con una confezione del tutto particolare. Nel dettaglio, il cd, insieme a un mini-cd e a un libretto rilegato a mano, è stato inserito in un sacchetto di velluto nero, cucito sempre a mano. Il libretto contiene immagini e testi delle canzoni, mentre sul mini-cd troviamo un inedito, una lunga suite ambientale/sperimentale dal titolo “In The Sealed Athanor”. Questa speciale edizione di “A Personal Collection Of Demo(n)s” è stata prodotta in un numero limitato di 100 copie, che potranno essere richieste, fino ad esaurimento scorte, solo scrivendo all’indirizzo e-mail icydawn@katamail.com

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